Roberto de Caro: “Note sull’opera di Alberto Beneventi.”
Testo critico (2007)
Alberto Beneventi nasce a Pavullo nel Frignano, sull’Appennino modenese. Pur dipingendo egregiamente da sempre, nel 2002 imprime alla sua cifra pittorica uno scarto formidabile per potenza di forma e pregnanza di contenuti: una cesura senza ritorno, un’accelerazione che lo impone d’amblée all’attenzione della critica più avvertita. Il percorso, fulmineo, inizia nel gennaio 2004 con la pubblicazione di alcuni quadri su Hortus Musicus, trimestrale indipendente di politica e cultura, e culmina nel dicembre 2007 con la personale Muri, nella Rocca Sforzesca di Dozza Imolese, per la prestigiosa cura di Marilena Pasquali, anche lei, tra l’altro, collaboratrice di Hortus Musicus, dove per la prima volta vede riprodotti i lavori dell’artista.
Caratteristica dell’opera di Beneventi è l’organizzazione della ricerca pittorica in cicli composti da un ridotto numero di tele, in cui continuamente ritornano, in nova mutatas formas corpora, i temi radicali della sua poetica esistenziale. Quadri dai cicli Palude, Delta, Paesaggio d’inverno, È tempo di partire, Il cielo l’orizzonte e il mare.Omaggio agli uomini migranti vengono esposti in varie mostre, tra le quali occorre ricordare almeno la collettiva del 2004 alla Galleria Petruso Arteincornice di Torino – con opere di Mauro Reggiani, Gianfranco Ferroni e Giovanni Cappelli –, e le personali alla Galleria Cortina di Milano (2004) e alla Libreria Edizioni Cardano di Pavia (2005). Nell’estate 2007 si aggiungono alcune tele da due nuovi cicli – Campo di neve e Muro – in una collettiva di rilievo tenuta a Villa Carcina, vicino Brescia, intitolata Le ragioni della pittura nei linguaggi che cambiano, sempre insieme a Cappelli, Ferroni, Reggiani e, tra gli altri, Piero Dorazio.
Il catalogo della mostra di Dozza (Adac Edizioni, Modena 2007) è aperto da uno scritto di Eugenio Riccòmini, Ghirigori in cielo, e strazio nell’anima, che individua con sicura pertinenza nell’incessante riflessione di Beneventi sulla vicenda umana – «quel suo aggirarsi con la mente sulla sorte dei nostri simili » –, «il motore» che ne «sospinge» il dipingere: è infatti l’istanza etica che ne determina l’ineludibile urgenza, ne orienta senza infingimenti lo sguardo «sulle diseguaglianze fra gli esseri umani, sulle prepotenze, sulle umiliazioni, sul reiterarsi quotidiano e quasi inosservato dei massacri». Tuttavia, osserva la Pasquali (Alberto Beneventi. Dell’uomo, della natura, del tempo, ivi), nelle sue tele «la figura umana non compare mai»: è presente «per traslato». Ed è proprio questa la pietra angolare dell’edificio poetico di Beneventi, a partire dalla rappresentazione di una natura sempre metaforicamente rinviante all’essere umano, alle sue peculiari necessità, ai suoi drammi, perfino alla sua fisiologia, come mostrano le Paludi e i Delta, figure funzionali alla proiezione su tela dei percorsi angosciati della mente, recisamente prive, si badi, di qualsivoglia intenzione oggettivante – e ancor meno diegetica –, ma al contrario, sulla scorta di Rothko, vieppiù significanti in misura proporzionale al calore soggettivo dello sguardo. Precisamente quel che accade con Il cielo, l’orizzonte e il mare. Omaggio agli uomini migranti, dove la comprensione dei tre elementi della prima parte del titolo, e quindi dell’opera, richiede solidale tensione empatica con la seconda, in assenza della quale l’inebriante specifico pittorico, incarnato da geniali declinazioni del blu e del nero in acrilici e smalti, oltre che sprecato può addirittura risultare fuorviante.
È tempo di partire e Paesaggio d’inverno sono cicli densi, in cui la complessità delle tematiche in gioco richiederebbe ben più di un accenno. È possibile però ritrovarvi e isolare un aspetto essenziale del pensiero di Beneventi: la riflessione sul tempo, intesa come cognizione dell’irripetibilità e irreversibilità della vita umana – di ogni singola vita –, costitutive insieme della tragedia dell’esistenza, la quale però non risiede affatto nella natura caduca dell’uomo, poiché questo è il dato di partenza, ma è fenomeno specificamente politico, radicato nelle feroci regole dell’inclusione e dell’esclusione.
Il motivo è dominante anche in Campo di neve, dove la divisione orizzontale del quadro definisce il limite tra ciò che è e ciò che dovrebbe, tra volontà e possibilità, poiché per Beneventi, come per De André, «dev’esserci un modo di vivere senza dolore ».
Infine i Muri, matrici della memoria, testimoni di esistenze, che nulla hanno a spartire con eventuali paesaggi dell’anima, casomai qualcuno lo pensasse.
Muri di case invece, luoghi in cui le passioni umane hanno preso davvero vita, scrigni incisi dal dolore, dalla speranza, dalla violenza, dall’amore, avvolti dalla pietas dell’artista: un sentimento interamente suo, estraneo al religioso, al sacro, privo di sottintesi eterogenei, immune da ipocrisia. Qui potentemente Beneventi scruta se stesso, e mediante una coraggiosa metamorfosi estetica trasforma la propria storia in questione universale, senza però recidere il filo che unisce questa a quella. Merita a tal riguardo riportare per intero un passaggio in cui Marilena Pasquali illumina il senso di una delle più intense creazioni del pittore, il Trittico che chiude il catalogo:
«il muro si moltiplica come in un gioco di specchi ove la luce trascorre per gradi quasi impercettibili dal massimo al minimo di intensità. E, insieme alla luce, le lacerazioni paiono, a poco a poco, confondersi nella superficie del fondo per acquattarsi sempre più nell’ombra. Certamente dietro questa grande opera c’è l’amore per il grido straziato della Crocifissione di Bacon, così come riecheggia il pathos delle carni lacerate di Soutine, ma vi si intuisce anche – oltre la sofferenza – un desiderio di silenzio, un bisogno di concentrazione e di introspezione, come se l’artista sentisse la necessità di ripensare tutta la sua opera e quasi di ‘ricaricarsi’, prima di riprendere, con più forza del cuore e determinazione della mente, il suo cammino nell’immagine».
È dunque quella di Beneventi pittura di condizione, immersione nel profondo della notte, nel solco consapevolmente tragico scavato nel ’900 da Soutine, da Bacon, da Pollock, da Rothko, in contrapposizione irriducibile con un’arte che si sottrae alla responsabilità, si pretende gioco, si nega appunto alla tragedia, cinicamente indifferente al dramma, all’evidenza tremenda del destino umano: o che peggio lo irride, ne fa oggetto di consumo per palati forti. Oggi che la miglior critica torna
a riflettere sul senso dell’agire artistico, e in particolare sulla non surrogabile fecondità della creazione pittorica, il lavoro di Beneventi rappresenta a suo modo un’avanguardia, un passo oltre. Non a caso Philippe Daverio e Jean Blanchaert (secondo il quale «le idee di oggi e di domani si realizzano con i materiali di ieri e dell’altro ieri») lo hanno inserito in un libro importante sotto molti aspetti, 13×17. 1000 artisti per un’indagine eccentrica sull’arte in Italia, Rizzoli 2007, in cui si riproducono le opere ‘formato cartolina’ di una mostra nata a Venezia nel 2005 in polemica con la Biennale, su intelligente iniziativa di Elena Agudio e Cristina Alaimo, e divenuta itinerante in «una sorta di giro d’Italia». Come scrive Daverio nell’introduzione al volume, quando «Damien Hirst pose in commercio il teschio coi diamanti, trasformando d’un solo colpo gli orrori di Auschwitz e di Pol Pot in una gag per allegroni […] d’un colpo 13×17 assunse un valore etico di testimonianza». Beneventi è quindi nel posto giusto, con una miniatura splendida: Per nuovi campi di pane. Omaggio a Mario Schifano.
E tuttavia al contempo lo eccede: per respiro di tematica innanzitutto; per portata stilistica di un classicismo nuovamente declinato, innervato di un umanesimo cosciente dei meccanismi devastanti della civiltà dello scambio; per autorevolezza e dignità di forma, che si fa sostanza in antitesi con le banalità del postmoderno; per programmatico rifiuto di minimalismi, pensiero debole, cultura dell’effimero e fine della Storia.
Roberto De Caro: “Notes on the artistic work of Alberto Beneventi”
Alberto Beneventi was born in Pavullo nel Frignano in the Modenese Apennines. Despite always having painted with masterly skill, in 2002, he achieved remarkable critical acclaim when the potency of form of his pictorial art and the poignancy of its content marked a turning point in his career: a caesura with no return, an acceleration that put him in the limelight. His meteoric ascension started in January 2004 with the publication of some of his paintings in Hortus Muscicus, an independent quarterly magazine dealing with politics and culture, and culminated in December 2007 when he exhibited his paintings in the one-man show Muri in the Sforza fortress of Dozza Imolese, with the prestigious curatorship of Marilena Pasquali who, among other things, is also a contributor of Hortus Musicus, where she first saw the artist’s works.
The characteristic feature of Beneventi’s works is the organisation of his pictorial evolution into cycles composed of a limited number of paintings, in which the main themes of his existential poetics continuously recur in nova mutatas formas corpora. Paintings from the cycles Palude (Marsh), Delta(Delta), Paesaggio d’inverno (Winter landscape), È tempo di partire (It is time to leave), Il cielo, l’orizzonte e il mare. Omaggio agli uomini migranti (The sky, the horizon and the sea. Homage to migrating men) were shown in several exhibitions most notably the collective at Turin’s Galleria Petruso Arteincornice in 2004, alongside works by Mauro Reggiani, Gianfranco Ferroni and Giovanni Cappelli; and the one-man shows at the Galleria Cortina in Milan (2004) and at the Libreria Edizioni Cardano in Pavia (2005). In Summer 2007, paintings belonging to two new cycles – Campo di neve (Snow field) and Muro (Wall) – were included as part of an important collective exhibition held at Villa Carcina, near Brescia, entitled Le Ragioni della pittura nei linguaggi che cambiano (The Reasons of painting in changing languages), and which also featured works by Cappelli, Ferroni, Reggiani and Piero Dorazio.
The catalogue of the exhibition in Dozza (Adac Edizioni, Modena 2007) opens with a preface by Eugenio Riccomini, Ghirigori in cielo, e strazio nell’anima(Loops and squiggles in the sky and torment in the soul), which locates with sure pertinence in Beneventi’s never-ending reflection on life – «his mental wondering about the fate of our fellow creatures» –, «engine» that «drives» his painting: it is indeed the ethical order that determines the unavoidable urgency and honestly directs his gaze toward «the inequalities amongst human beings, the bullying, humiliations and daily almost unnoticed recurrence of massacres». However, Pasquali says (See Alberto Beneventi, On man, On nature, On Time, ibid.) in his paintings «human beings never appear», being present only metaphorically.
This is the true cornerstone of Beneventi’s poetical building. Based on a nature that is always metaphorically linked to human beings, their particular needs, their tragedies and even to their physiology, as the Marshes and the Deltas show, they are representations functional to the projection onto canvas of the mind’s twisted pathways, definitely void, mind, of any objectifying or diegetic intention.
On the contrary, following in the footsteps of Rothko, it becomes all the more meaningful in proportion to the subjective fervour of the gaze.
This is exactly what happens with The sky, the horizon and the sea. Homage to migrating men, where the understanding of the three elements of the first part of the title and therefore of the work, requires a solid empathic tension with the second, without which the inebriating specific pictorial nature embodied by genial declensions of black and blue in acrylic resins and enamels, besides being wasted, might even prove misleading.
It is time to leave and Winter landscape are dense cycles, in which the complexity of their themes merits more profound investigation. However, in them one can identify and isolate one fundamental feature of Beneventi’s thought: his meditation on time, taken as the uniqueness and the irreversibility of human life – of each single life -, an accumulation of the tragedy of the existence, which does not reside in man’s transitory nature, and this is the starting point, but rather it is a specifically political
phenomenon, rooted in the ferocious rules of inclusion and exclusion. This theme also prevails in Field of snow, where the horizontal division of the painting defines the boundary between what is and what should be, between will and possibility, as for Beneventi, like De André «There must be a way to live with no pain».
Last come the Walls, matrices of the memory, witnesses of existences, that have little in common with the landscapes of the soul, regardless of what some think. Walls of houses, rather, places where human passions were born, caskets engraved by pain, hope, violence, love, wrapped in the artist’s pietas, a feeling that is his and his alone, neither religious nor sacred, devoid of heterogeneous implicit meanings and immune to hypocrisy. Here Beneventi powerfully searches his soul and through a daring aesthetic metamorphosis, transforms its history into a universal issue without severing the cord that ties them. In this connection it is worth quoting a full passage written by Marilena Pasquali who enlightens us on the meaning of one of the painter’s most intense creations, the Triptych which closes the catalogue:
«The wall multiplies as if in a game of mirrors where light ranges from dimness to brightness. And, along with light, tears appear, little by little, to become blurred on the background surface to disappear into the shadow. Surely this great work of art reminds us of the piercing shriek of Bacon’s Crucifixion, and echoes the pathos of Soutine’s torn flesh, but also – alongside the suffering – we can feel a longing for silence, a need for concentration and introspection, as if the artist needed to rethink his whole production and “recharge” before setting out once more on his artistic journey, with more power in his heart and
more determination in his mind».Beneventi’s painting is to be considered as painting of condition, an immersion in the darkness of the night, in the consciously tragic furrow dug in the 1900s by Soutine, Bacon, Pollock, Rothko as an irreducible contraposition to that art which shirks responsibilities, pretends to be a game, denies itself to tragedy, cynically indifferent to drama, the tremendous evidence of the human destiny or, even worse, which mocks it, making it a consumer product for strong tastes. Now that today’s most acclaimed critics reflect on the meaning of artistic performance and, in particular, on the irreplaceable fertility of pictorial creation, Beneventi’s artistic work represents a sort of avant-garde, a step beyond.
It is no coincidence, then, that has he been included in an important book, 13×17. 1000 artists for an eccentric survey on art in Italy, Rizzoli 2007, edited by Philippe Daverio and Jean Blanchaert (according to whom «Today’s and tomorrow’s ideas are carried out with the materials of yesterday and the day before»). The book contains postcard size works of art of an art exhibition held in Venice in 2005, to contrast with the Venice Biennal Exhibition on the intelligent initiative of Elena Agudio and Cristina Alaimo, which has become a travelling show performing «a sort of a tour of Italy».
As Daverio writes in his introduction to the book, when «Damien Hirst unveiled his diamond-studded skull, transforming the horrors of Auschwitz and Pol Pot into a “gag” for jolly fellows in one fell swoop […] all of a sudden 13×17 took on the ethical valve of evidence». Beneventi is therefore in the right place with a splendid miniature For new fields of bread. Homage to Mario Schifano.
And yet, at the same time he exceeds it: firstly for the amplitude of his themes; the stylistic significance of a new breed of classicism, interwoven with a humanism conscious of the devastating mechanism of the civilization of trade; his authoritativeness and dignity of form, which becomes substance in antithesis with post-modern triviality and his programmatic rejection of minimalism, weak thought, Ephemeral Culture and end of History.