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Paolo Donini: “Un piccolo lembo di muro giallo. Pittura e finitezza nell’opera di Alberto Beneventi.”

Dai cataloghi delle mostre a Palazzo Ducale di Pavullo (2010) e al Centro Espositivo Mobalpa di Parigi (2011)

 

poiché un critico aveva scritto che nella Veduta di Delft di Vermeer (prestata dal museo dell’Aja per una mostra di pittura olandese), quadro ch’egli adorava e credeva di conoscere alla perfezione, un piccolo lembo di muro giallo (di cui non si ricordava) era dipinto così bene da far pensare, se lo si guardava isolatamente, a una preziosa opera d’arte cinese, d’una bellezza che poteva bastare a se stessa, Bergotte mangiò un po’di patate, uscì di casa e andò alla mostra. .. Alla fine, fu davanti al Vermeer, che ricordava più smagliante, più diverso da tutto quanto conoscesse, ma nel quale, grazie all’articolo del critico, notò per la prima volta dei piccoli personaggi in blu, e che la sabbia era rosa, e – infine – la preziosa materia del minuscolo lembo di muro giallo. … non staccava lo sguardo, come un bambino da una farfalla gialla che vorrebbe catturare, dal prezioso piccolo lembo di muro. «E’ così che avrei dovuto scrivere, pensava. I miei ultimi libri sono troppo secchi, avrei dovuto stendere più strati di colore, rendere la mia frase preziosa in sé, come quel piccolo lembo di muro giallo.» …. In una celeste bilancia gli appariva, ammucchiata su uno dei due piatti, la sua propria vita, mentre l’altro conteneva il piccolo lembo di muro così ben dipinto in giallo. Sentiva d’aver dato, incautamente, la prima per il secondo…

In questa pagina della Recherche Marcel Proust, narra la morte di Bergotte e nell’episodio Giovanni Macchia, con il saggio L’angelo della notte, rintraccerà una precisa per quanto misteriosa cifra biografica: la pagina sarebbe per Proust un vagheggiamento della propria morte, ritagliato su un fatto: la visita a una mostra parigina di Vermeer, pericolosamente voluta dallo scrittore, già molto ammalato, durante la quale Proust avrebbe immaginato, nel presentire la sua, la morte del personaggio.

Questa visita diventerà poi nel romanzo un palpitante e conciso cammeo letterario che contiene una visione della vita e dell’arte, una poeticadell’attenzione e della finitezza.
Questa pagina fornisce, ad uso dell’artista contemporaneo, una sorta di manualetto che possiamo distillare in una semplice affermazione: l’arte, tutta l’arte è un pezzetto di muro giallo.

Petit pan de mur jaune, ma, precisa Proust, d’una bellezza tale che può bastare a se stessa e che vale l’intera vita. Il pezzetto di muro ardente e interrogante, di fronte a cui abbiamo vissuto, sotto il quale siamo andati a morire.
In queste indicazioni ritroviamo una cifra propria della modernità, per cui è l’esperienza minuta, quotidiana e autenticamente umana, a liberare il presagio dell’arte.

E tuttavia, di fronte nuovo criterio dominante dell’arte “mercantile” che marca l’attualità, ovviamente, non c’è traccia della lezione umana che contraddistingue per contro la modernità nell’accezione qui indicata – confermando che questa, in quanto attualità all’umano, non si dà una volta per tutte ma deve costantemente essere rinegoziata – mentre si affermano e si celebrano in arte gli stessi lemmi, le medesime sintassi, dello spettacolo, della comunicazione, della moda, della pubblicità, in un’iperproduzione visiva, tracotante e tediosa, essenzialmente a scopo di lucro e di rassicurazione, fra cui sempre più raro è, e sarà, riuscire a scorgere un pezzetto di muro giallo.

E tuttavia quel bagliore, quell’umile gloria serale, continua ad esistere, riemerge qua e là nelle epoche distrutte, come un soldo perduto, da sempre fuori corso, e riaffiora nell’opera delle eccezioni, dei marginali, dei grandi isolati di sempre. E quando emerge, brilla.

A quella famiglia dispersa e ritornante appartiene Alberto Beneventi. E la sua appartenenza scatta nel momento stesso in cui, in un panorama dell’arte che non è affatto distante da come brevemente descritto, l’artista concentra la sua pittura sulla tavola esigua, concisa, intensa dei Muri, rintracciando i legami nascosti e le matrici cancellate che unificano il cammino dell’arte, in quanto modernità come attualità all’umano, da riconquistare costantemente.

I Muri diventano così luogo eletto e ben delineato su cui l’artista misura la nostra vertigine.

Se Mark Rothko afferma che l’opera non si trova sulla tela bensì nello spazio antistante al quadro, nel caso dei Muri questo cannocchiale prospettico si può rovesciare: l’opera, nel quadro di Beneventi, non si trova sulla superficie bensì nel suggerimento delle innumerevoli stratificazioni che spostano il senso stesso di questa pittura dal piano della visibilità a quello dell’evocazione, sfondando programmaticamente il sostrato emerso del quadro nella direzione, elegiaca e inventiva, del suo segreto interno.

I Muri chiamano lo sguardo a un’indagine affettiva e formale da svolgersi su una materia puramente indiziaria, residuale eppure capace di memoria, dove ciò che importa non è l’oggetto ma la sua traccia, non l’attualità del tempo ma la costante diacronia tra flagranza e perdita, tra perdita e progetto. E tutto ciò entro una materia che rimane squisitamente pittorica e a suo modo, come vedremo, irriducibilmente naturalistica.

Il segreto di questi quadri, apparentemente giocati sul verticalismo parietale che li affaccia all’osservatore, è un orizzonte interno che si sposta sui differenti piani di un’evocazione sempre a cavalcioni tra biografia e istanza collettiva, a ripristinare nella superficie un meccanismo di negazione che mira e riesce a introfletterla.

La superficie pittorica si ritrova così libera dai suoi stessi crismi formali e rilanciata nell’amorevole indagine della miriade di episodi esclusi, caduti, perduti di cui la materia trattiene soltanto la traccia, il graffio, l’ombra, lo scialo di luce, la piaga, la scalfittura, il sonnacchioso sospetto.

Per ritornare al rovesciamento di Rothko, ciò che è antistante all’opera di Beneventi non è più la pittura ma la vita, serale, immersa nella finitezza, di cui si avverte l’eco smisurata, singola e innumerevole, venire a usurare il sostrato, a imbibirlo della storicità che inzuppa questi pannelli antropologici e biografici: quadri che hanno saputo trattenere l’abrasione della perdita, il fuochetto di paglia di un istante consumato, il tratto di gesso dell’infanzia, il vocio svanente dei passanti, il bagliore ocra, baluginato nell’ora ormai tarda dell’estate.

Sono pagine di consunzione e raccoglimento, a tratti così vinose e crepitanti da tradursi in una sacralità che nel bellissimo Trittico apre, su un vicoletto unto di cherosene e olezzante del piscio di gatti, il polittico portatile della preghiera laica, salmo a picco sull’imprecazione, nella scansione che documenta per tre volte lo scialo occiduo del sole, fino a spegnerlo sulle piaghe aperte dei manifesti strappati, memoria abrasa di ogni cronaca e nostra intimità con il nulla.

Da queste pareti, diciamo che Mimmo Rotella è stato strappato del tutto – e per ciò si intravede – mostrando là dietro, nella stratificazione di un intonaco dalla virtù cronomorfa e antologica, la sacca tumida e contusa di Bacon, la carne pittorica di Soutine, e quella stessa carne sbiancarsi in cerea luce in Rembrandt, e altro, molto altro ancora.

Muri museografici e riepilogativi, queste opere di Beneventi riescono a suggerire senza citazionismo la cultura dell’artefice, il suo sapere posto in opera, e pertanto alche il suo post-modernismo superato, nella cifra di una pittura memore e vivente, meta-riflessiva e urgente, di nuovo necessaria, totalmente eretica al contemporaneo. Quindi una pittura e a un tempo un manifesto pittorico che è tale proprio in quanto strappato via.

Oltre i Muri, liquidando, in un segno di gesso lasciato da un bambino, il rivolo laterale del graffitismo, l’artista concentra senza mezzi termini il suo interesse sul nucleo esistenziale della ricerca: il rapporto tra segno e finitezza, pittura e morte.

Così quell’orizzonte interno, che chiamava lo sguardo a varcare l’avventura antropologica dei Muri, diventerà l’incerta, tremola linea di fuochi, segnalanti l’ipotetico continente, la linea di costa, agli Uomini migranti, nel potente e limpido dittico omonimo.

L’opera offre un omaggio ai disancorati, agli espulsi, agli extra di qualsiasi comunità, agli uomini in quanto esuli ed agli esuli in quanto uomini, gettati nel mare aperto dell’esistenza: un lavoro in cui il tema attuale della migrazione, fuor da ogni retorica, viene rilanciato sul tavoliere universale dello sradicamento, del disorientamento che scruta dalla sua povera zattera i bagliori intermittenti di una speranza dubbiosa, nel bel mezzo di una azzurrità tersa, omertaria, leopardiana.

In questi quadri dove l’ocra, il marron bruciato, il rosso dei Muri cedono all’azzurro e al verde, e la scorza pittorica da crespa e onusta si fa lucida e vibrante, Beneventi sembra osservare nella storia e pur nell’accenno a lacerti di cronaca, a rimasugli di ideologia o pezzetti di sociologie correnti, di nuovo il tema che gli sta più a cuore: la vulnerabilità creaturale, l’abisso che questa sottende.

L’abisso, la vertigine sono il soggetto dei recenti lavori in cui il pittore ci offre, dopo la narrazione dei Muri, il vero e proprio sorvolo di continenti d’azzurrità e amarezza, volute magmatiche di materia in costante movimento, su cui per la prima volta si permette di siglare figurativamente il volo bianco di un uccello – accorgimento iconico che consentirà all’osservatore di parametrare il palpito verticale della distanza, l’altezza della possibile caduta, il fiato mozzo dello spazio, l’enormità di quanto vivendo ci è richiesto.

Da questo ciclo aereo e naufragante Beneventi, seguendo un metodo per cicli che non sono da considerarsi progredenti bensì intersecati in un pratica pittorica intrecciata, spuria e parallela, ritorna all’impasto cromatico dei Muri per spostarlo su una diversa narrazione, che di quel ciclo mantiene il meccanismo inclusivo e l’appello interno via via più irrequieto, allarmato.

Sono opere dove riappare una cifra essenziale in questo pittore, il suo irrinunciabile seppur perfettamente aggiornato, naturalismo. Una cifra che riappare corroborata dal ciclo forse più affettivo e memoriale delle “case”, sorta di porta laterale o retro cortile nel complesso pittorico di Beneventi dove l’artista esce, come per riaccendersi il mozzicone della sigaretta, a concedersi una rivisitazione di luoghi in cui bio-grafia e icono-grafia non si disgiungono.

Qui all’improvviso le deformazioni ortogonali dell’espressionismo tedesco sposano una notte azzurrata, libera dalla forza di gravità perché immessa in un disancoraggio chagalliano che chiama i sentimenti in alto, ad ascendere per mano nel cielo stellato.

Oppure è il rettifilo grigiastro della strada provinciale sottocasa che mette a una suburra dal residuo sopore mitteleuropeo, dall’infilata di tigli carbonizzati in un viale d’autunno che ha i ritmi di una zoomata in un film noir anni ’50: un accento tanto caramente francofono che all’angolo del quadro, dove il viale svolta, ci si aspetta da un momento all’altro di veder spuntare la figurina in impermeabile chiaro di Jean Gabin. O ancora, si incide nel quadro un suggerimento d’oltreoceano, grazie alla resa del guizzo grafico veloce, nevrotico, evacuato, di una mano che gioca con una matita pop come entro una disabitata graphic novel neworkese, a scribacchiare la scena entro quel bianco che è lo stesso “non dipinto” del fumetto: è qui che il segno accamp – come un “gasp!” in un baloon – tutta l’infondatezza, la scissione contemporanea tra linguaggio e “realtà”, e la figurazione apparentemente più tradizionale nulla toglie alla vertigine, sbilenca ed errabonda, delle dimensione interiore, mai rappresentata dalla figura umana e sempre riofferta nella desolata astanza d’edifici e strade. Così, le “case”, sghembe fra storti alberi e lampioni, sanno essere a un tempo il racconto della provincia e il canto delle periferie, un’elegia paesana e un presagio di solitudini metropolitane, uno spaccato storico e una spia preveggente del futuro.

Un naturalismo profondo, per nulla esibito anzi schivo e riposto ma talmente presente da suggerire sempre a chi guarda un richiamo alla forma di cui si coglie la complessità, l’imprendibilità, il tratto vero e svanente.

L’indagine qui si gioca sul mistero stesso della visione, per cui il tratto descrittivo contiene il detonatore che lo slega da sé, e la forma della cose, come la carne di Soutine – pittore carissimo ad Alberto – esprime nella macerazione il disancoraggio stesso della materia.

Questa pittura della finitezza tocca così il suo vertice meditativo nello sfondare la marca del finito con gli strumenti stessi del finito, l’alfabeto della forma con le sue stesse lettere, non in direzione oltremondana ma nell’impasto tragico della nullificazione dei corpi e nel richiamo all’unico dato esente: la traccia, il segno umano. Unica nostra trascendenza.

Sono opere che spaccano la struttura compositiva dei Muri su una scena di campi e acquitrini, visti da quinte di steli e stoppie, dove s’avverte, dalla nostra parte, nel nostro petto, l’ansimo di una drappello di esseri che si fa largo, avanzando tra le spine, verso un orizzonte questa volta terragno.

Laggiù, l’ocra scalfito sulla roccia mima un cielo ancora plausibile ma rinserrato, a cui chi avanza guarda con affanno. A queste concitazioni, l’artista alterna la sua fin qui più alta maestria della traccia: sparito ogni gesto vivente, resterà solo il folto atterrato dai passi di corsa, il bruciaticcio pestato al suolo, la macchia intrisa di un cielo avvicinato, forse mai stato così tragicamente terrestre – se rivolgendoci non notassimo, sul Muro calcinato, dipinto alle nostre spalle, vibrarne, sempre estrema, la palpebra gialla.