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Cristina Muccioli: “Alberto Beneventi Orizzonti di origine”

Dal Catalogo dell’esposizione a Francoforte presso la Galleria “Art Virus”, 2014.

 

Nella selva mutevole delle istallazioni, dunque della provvisorietà come nuova categoria estetica, e delle performance in cui l’artista fa del proprio corpo il supporto e la superficie del suo operare – spesso con esibizioni dell’osceno e dell’informe, di oggetti abietti e sudici o di ferite, di sanguinamenti e di altri gesti choccanti – l’opera nella sua costitutiva e silente matericità sta scomparendo. L’arte contemporanea è senza opera, e la sua prima espressione a patire il rischio di estinzione è la pittura.

Alberto Beneventi, pittore, fa resistenza culturale e qualitativa, si pone con la sua coerente e ostinata fedeltà alla forma compositiva come sopravvissuto alle mutilazioni inferte da scelte curatoriali spugnose, permeabili, perfettamente docili ad appagare mode e tendenze. Beneventi inoltre, consapevole della gigantesca e pesante tradizione che lo precede, riprende la pittura di paesaggio sin dagli esordi, e non alla leggera, con un vago citazionismo. Fa i conti con il passato e rende conto al presente, quindi non replica nulla, ma ricorda, porta con sé, com-prende.

Decisiva e costitutiva della sua pittura è la questione della memoria, del ricordo, come vedremo tra breve. Se il ricordo è intimamente soggettivo, intimo e privato, la memoria è anche collettiva e storica.

La stessa parola “paesaggio”, oggi entrata ufficialmente anche nel lessico politico con le sue permanenti cifre estetizzanti, venne usata per la prima volta proprio da un pittore, Tiziano Vecellio. Scrivendo al sovrano spagnolo Carlo V d’Asburgo, Tiziano ormai celebre e conteso dalle Corti europee, gli promette un quadro, che sarà un grande “paesaggio”.

La Convenzione europea del paesaggio[1] stabilisce expressis verbis che il territorio e l’ambiente non esistono più, perché territorio e ambiente sono oggetto e frutto della percezione[2], sono cioè oggetti “estetici”. Dare rilievo politico, dunque concreto e anche economico e amministrativo al fatto percettivo è rivoluzionario, ma fa parte di quelle rivoluzioni silenziose di cui pochi s’accorgono e meno ancora hanno presentito, preannunciato, testimoniato.

 

Non che Beneventi faccia il politico, con la sua pittura. Piuttosto è politico, nel senso che è consapevole delle lacerazioni, dei drammi, delle inquietudini come delle speranze che animano la polis in cui vive, dove polis abbraccia il locale come il globale.

Il cielo, l’orizzonte e il mare è un quadro di paesaggio, dove a fare paesaggio sono i migranti: non il loro essere visibili, bensì il loro essere esuli, in fuga, affidati alle acque che spesso li inghiottono. Il soggetto non si vede. Si vede l’oggetto della sua percezione, una distesa di blu su cui aggallano condensazioni celesti, con quelle variazioni continue dal lucido all’opaco di cui la superficie dell’acqua, investita dalle modulazioni della luce naturale, sa ammantarsi. Il fascino incupito del mare è separato dal chiarore del cielo da una linea dorata, un bisbiglio appena d’orizzonte, un cenno magnetico che infonde la forza di proseguire e approdare.

Anche in Caspar David Friedrich, il più grande pittore di paesaggi del Romanticismo tedesco, la presenza umana era secondaria o nascosta. Ne Il viandante sul mare di nebbia[3] è rappresentato un uomo di spalle rispetto allo spettatore, che pure è in movimento; si appoggia infatti a un bastone da camminata in montagna. Con lui  si avverte non la centralità, ma la piccolezza umana dinnanzi all’abisso infinito, alla vastità che gli spalanca sotto i piedi, se pur bianca e ovattata, una volta giunto in vetta. Eppure, marginalizzato e irriconoscibile, quel piccolo uomo è il tramite, è la condizione stessa del prodursi della visione, la stessa che diventa nostra grazie alla pittura.  Noi vediamo attraverso i suoi occhi celati, contempliamo la possanza e la bellezza struggente del paesaggio, che non esisterebbe senza un osservatore, né senza un pittore capace di portare il cielo in terra e su tela.

Altrettanto estetico e politico è il paesaggio di È tempo di partire (2010), dove un campo liso, abraso dal sole e dall’incuria dopo il raccolto, mostra cicatrici nere nella terra che trattiene un po’ dell’oro che l’aveva fatta ubertosa e ricca. Il cielo precipita in terra. La brucia e la domina, vanta un giallo deciso, sfrontato, carico eppure già prossimo al buio.

Così il pittore snida il miracolo dentro la normalità, il lampo di bellezza struggente dentro il caos e la solitudine dell’abbandono, e il movimento di chi, invisibile ora, è passato, ha faticato, ha vissuto e cantato forse, e poi se n’è andato, è partito obbedendo alle leggi dei flussi, all’impossibilità odierna di radicare, di avere sede, casa, regno, Stato che, appunto, “sta”, resta immobile.

Il nostro rapporto con la realtà, intuiva Aristotele e confermano tutta la psicologia e le neuroscienze odierne, è fantastico, legato indissolubilmente alla fantasia intesa come capacità di farci immagine del mondo, di figurarcelo, anche nel momento in cui lo percepiamo a livello sensoriale, semplicemente percettivo.

La rassegnazione, più che la rinuncia, degli artisti a non proporre la figurazione perché bollata dalla odierna arroganza iconoclastica di passatismo polveroso, è quindi un contravvenire a un tratto che è quintessenzialmente umano: quello immaginare, di pensare per immagini e di creare nessi, relazioni e simbolizzazioni tra i vari dati percettivi.

Noi tutti entriamo in relazione con l’aspetto sensibile cose in una dimensione estetica e fantastica. La capacità di rappresentarla poi, di presentarla cioè una seconda volta nella sintesi formale dell’elaborato artistico, è di pochi. Non ci sono immagini grazie ai pittori. Ci sono i pittori perché noi ci facciamo immagine del mondo, e i pittori sono in grado di renderla a sua volta visibile.

Anche da questo punto di vista Beneventi resiste, non rinunciando a riconoscersi nel sentiero già profondamente solcato dal miracolo quotidiano dell’essere umano, quello di inventare, di fantasticare e immaginare il mondo che già gli è dato, in cui è stato “gettato” per dirla con Martin Heidegger.

 

Insubordinato sin da ragazzo tanto alle autorità delle accademie filologicamente sedentarie e sclerotizzate, quanto alla frivolezza isterica delle mode e dei suoi modi, puntigliosamente ostile alle lusinghe delle scorciatoie mercantili, quelle che fanno della trovata e del disgusto provocatorio il proprio esausto ronzino di battaglia, con la sua pittura  Beneventi fa muro, il caso di dire, agli aspetti più concreti, più mortiferi e mortificanti dello spirito dei tempi, quello analgesico e nichilistico. Si tratta di ciò che ci mette al riparo dal provare emozioni, di essere coinvolti nel profondo – a livello cognitivo ed emotivo – da qualsiasi accadimento, anche catastrofico. All’intrusione pervasiva, morbosa e voyeristica dei media che spettacolarizzano guerre, catastrofi e crisi, fa da contraltare la più apatica astensione dalla personale presa di posizione, dal giudizio etico e , molto più radicalmente, dal semplice accorgersi dell’esistenza dell’altro.

Abbiamo con il reale un rapporto obliquo, indefinitamente rarefatto e mediato da filtri, inautentico. L’educazione soporifera che riceviamo, più vicina all’addestramento, è volta a fare di noi la realizzazione di un esito programmato, in cui nulla ecceda e distragga dalla specificità cui si viene destinati, incollati e ritagliati, fatti coincidere e riconosciuti.

Il vivere contemporaneo cancella, senza clamore ma inesorabilmente, ogni scansione temporale della nostra vita, a partire da quella quotidiana in cui il giorno è destinato alle attività e la notte alla sospensione di ogni agire, della vigilanza della coscienza. La soglia che separava queste due fasi naturalmente e culturalmente distinte, a maggior ragione è totalmente inavvertita: il crepuscolo, il tramonto, l’alba e l’aurora sono al più metafore vuote di rimando concreto. Il palpito luminoso che proprio l’imbrunire o il dileguarsi del buio notturno sanno racchiudere continua a brillare, inavvertito. Allo stesso modo abbiamo addomesticato e asfissiato il trepidare pensoso o gioioso di ogni vigilia e di ogni addio, del commiato dalla vita come del suo nuovo schiudersi al mondo.

Si vive ventiquattro ore su ventiquattro, in quella totale erosione della sacralità del tempo, tale anche per un non credente, per cui appunto sacro – cioè inviolabile – è il tempo del lavoro, della relazione pubblica, e sacro quello del riposo, dell’ozio e della privatezza.

Ancora: le ingegnose e certamente mirabili innovazioni manipolatorie tecnico scientifiche che modificano geneticamente i frutti della terra e le risorse animali di cibo, insieme con il potenziamento massimo delle reti commerciali a livello mondiale, hanno tolto anche la stagionalità dei cibi, il ritmo scandito della loro produzione, la festa del loro consumo.

 

È stata sottratta, con questo ritorno della circolarità del tempo, con questo fantasma di eternità non deperibile, la capacità di creare e darsi forme di articolazione simbolica degli eventi naturali, quali noi stessi siamo, con il ritmo circadiano che fa comunicare il nostro corpo con quelli celesti, immettendolo armonicamente in un universo fatto di ritmi ciclici astronomici e biologici, macro e micro vitali.

La frenesia comunicativa delle navigazioni internettiane che hanno dissolto, letteralmente, le coordinate spaziali e temporali con cui sino alla fine del secolo scorso siamo vissuti, ha reso effimere e friabili le relazioni proprio mentre le moltiplicava a dismisura. L’affanno degli aggiornamenti rende superflua la memoria, che deleghiamo anche nominalmente alle macchine, e rende ininteressante un fatto se accaduto ieri.

Siamo effetti senza cause.

Siamo tramortiti e disorientati, disaggregati e superficiali, oppure perfettamente assuefatti e tossicodipendenti al nuovo, non importa quando banale sia.

Prede della compulsione alla ricerca dell’ultimo modello e della nuova connessione, che prima era incontro e conoscenza, rischiamo di trovarci sì nel mondo, ma senza mondo: la provvisorietà e l’obsolescenza che incombe anche sull’acquisto appena fatto, la facilità estrema e dubbia con cui è possibile conoscersi, e perdersi di vista con i social networks destruttura il legame di amicizia che sino a poco fa si inaugurava e si nutriva affettivamente, mentre oggi “si chiede” e si ottiene con un clic. L’antidoto per lo più proposto è il palliativo della retorica sentimentale immedesimante, del semplice travaso di emozioni, della cattiva empatia: quella spacciata come supplemento d’anima. Ogni azione fondativa degli elementi essenziali dell’esperienza dell’incontro, di una persona e ancor più di un’opera d’arte è frustrata sin dall’inizio, sin dal contesto.

Nella rutilante, ebbra festa continua del nuovo ogni indizio che possa essere ricordo di tempi passati, svelativo di invecchiamento, è considerato e trattato come piaga, malattia da guarire. Questo evo è rinnegato, negazionista del valore del passato, antiage, forzatamente giovane.

Di nuovo, l’artista si sottrae al gioco della pretesa rivoluzione quotidiana. Non rivoluziona ma riforma, insiste sulla forma e sulle sue sostanze.

Attraverso una ricerca pittorica inesausta rintraccia nei paesaggi, o in frammenti di essi, quella bellezza di cui abbiamo necessità e nostalgia da che esistiamo come genere Homo. Certo, la bellezza odierna, dopo l’orrore mai del tutto razionalizzabile e sanabile della Seconda Guerra Mondiale, come aveva già scritto Samuel Beckett[4] – per il quale anche parlare di un albero avrebbe implicato il tacere criminale e  ignominioso degli orrori bellici – non è più concepibile nella sua versione idealizzata e perfetta, eufonica, lucente e apollinea.

Resiste però, innanzitutto in noi che la sfioriamo e la cogliamo nella realtà esterna, magari appartata e fragile, sorpresa, puro accadimento.

 

Beneventi dipinge la luce attimale di quella sacralità primigenia della natura che lo stregava da bambino, e poi da ragazzo, che ha saputo serbare emotivamente e trasfigurare sulle tele e sulle tavole di legno. Le lunghe camminate senza meta, con quella spensieratezza, quell’essere annoiati anche, e sfaccendati, che spalanca le porte della più intensa meraviglia per la mossa di un insetto, di un pesce, delle masse ondose di erbe alte nei prati incolti, tornano a visitare gli occhi saturi e animati del pittore. I ricordi e la vista degli stessi luoghi si trasformano in associazioni psichiche, e in vedute paesaggistiche.

Sono paludi dove il marcio si acquatta e si stempera assonnato, disponibile ad accogliere mostri e ronzii in una placenta tonale dove tutti i rintocchi possibili del verde trovano accordi ipnotici; campi di pane allagati di sole, alcuni punteggiati dalla gaiezza passeggera dei papaveri rossi; campi di neve assopiti e presi in sé, sistole prima della diastole primaverile, mestizia e grandezza del gelo che tutto tacita e protegge insieme, in una vaporizzazione di bianco che mitiga piccole condense di grigiazzurro. Guazze nerastre sporcano il candore della neve, paradosso cromatico di due realtà coesistenti: la prima riguarda la transitorietà delle cose, anche di quelle apparentemente fisse per antonomasia, congelate. La seconda allude ai luoghi in cui la bellezza sa dimorare, inattesa, residuale anche sotto l’assedio terragno più cupo.

Chiunque abbia a che fare con l’arte che non sia etichettabile come iperrealista né come informale o concettuale, sa di trovarsi davanti simbolizzazioni del reale. E sa, anche, che il simbolo è sempre polivalente. Tale molteplicità di significati e rimandi però non ci esime, non ci esonera dal tentare un’interpretazione.

È quel che occorre fare dinnanzi ai Muri, porzioni di case abbandonate alla vista dell’oggi, e abitate nel ricordo di ieri. Il muro è l’espressione più compiuta, pur nella sua fragilità e corrosione, della consistenza materica che dell’opera che non scompare, che sta e resta, pronta a essere sovrapposta a un altro muro, uno nostro. Citazione di quella poetica che sa elevare un resto, un frammento, a piena dignità di monumento, i Muri rifiutano qualsiasi richiamo e lontana parentela con l’informale. Sono forma, sono in grado di trasformare l’evento personale e biografico dell’autore in universale. Una volta terminati e osservati, colgono di rinnovata sorpresa il loro stesso creatore, lo sopravanzano e lo pungono, per citare un’espressione coniata da Roland Barthes nel suo saggio sulla fotografia La camera chiara. Mentre in un’opera informale tutte le interpretazioni sono contemplate, ove il lavoro abbia forma esige che da esso con le sue precise caratteristiche si parta, che ci si relazioni a partire da esso per ritornarvi alla fine del lavoro ermeneutico. Un’opera che ha forma acquista autonomia non solo rispetto allo spettatore, ma anche, come si diceva poc’anzi, rispetto all’autore stesso. È compiuta, è autonoma, dotata di senso interno.

Anche in questo caso Beneventi si immette in una tradizione estetica che ha avuto personaggi di prim’ordine a inaugurarla e a farne titanica espressione dell’arte Novecentesca, come Mark Rothko e Antoni Tàpies. Mentre per il primo però il muro murava, restituiva sulla tela la stessa sensazione di seprazione definitiva tra interno ed interno, di oppressione e claustrofobia da cui si viene assaliti  a Firenze nella Cappella Medicea Laurenziana di Michelangelo, da cui l’artista si è detto apertamente essere stato fatalmente influenzato[5], e Tàpies, nel cui nome è contenuta in catalano proprio la parola “muro”, a farsi predecessore, eredità immateriale e stigma stilistico del Nostro. Anche Beneventi, esprimendo soprattutto nella gestione del colore la sua unicità assoluta, sciolta cioè da ogni legame storico artistico, cerca e ricrea nella rappresentazione muraria la realtà  tangibile della materia edile. La rugosità, la scorza, le concrezioni di muffe che fanno del Muro una humus ubertosa, le essudazioni rugginose dei ferri impiantati nella costruzione, le tracce e le escoriazioni dell’intonaco, sono la ricognizione simbolica e concreta delle sedimentazioni della vita che, mentre trapassa, resta.

Una casa abbandonata è una casa in cui si è nati, si è vissuti giocando, chiamati forsennatamente a rientrare all’imbrunire e per pranzo, e allontanati per non essere d’impiccio nelle faccende dei grandi, in cui si sono sentite storie vere più belle delle favole, e favole sempre uguali ascoltate come si fa a teatro, come fosse la prima a ogni replica. Si sono fatte le conserve, si è chiamato il medico e poi il parroco al capezzale di chi moriva lì, con tutti intorno, i bambini più curiosi che spaventati. Tra quei muri ci si è amati, si è origliato, ci si è data la sveglia e si sono bisbigliati rosari in un latino illegale. Ci si è detti addio molte volte, prima di un matrimonio o di una chiamata alle armi, si è brindato e forse si è pianto per una speranza infranta vista tante e tante volte nelle sembianze di un fantasma cui si era già voluto bene. Il muro ricorda, trattiene, solidifica in sé sentimenti, rimpianti, suoni e risonanze, chiacchiericci e fischiettii, rumori di allarme e di routine di hora et labora, di vite viventi, sempre in transito.

Sono, ora, le voci del silenzio. I Muri ne sono scrigno. Il tempo li ha corrosi, nessun Sovrintendente avrebbe potuto tutelarli, ma l’arte può. L’incedere degli anni li ha smangiati fin dentro l’intonaco, li ha cariati nelle loro epidermidi rosa fragola e verde menta che oggi, per gli interni, sarebbero scartati anche dal vintage più temerario. Non c’è alcun rimando alla purezza di un muro intonso, perché la purezza non ha nulla di umano. L’umanità è grandemente, meravigliosamente impura, deperibile, mortale e consapevole di esserlo. Per questo sa essere coraggiosa, e sa essere felice: conosce l’intensità del momento che non potrà ripetersi. Così si indovina sorridendo da un segno corsaro, che un bimbetto armato di gessetto deve aver lasciato la sua traccia, il suo scarabocchio trasgressivo.

Prima che soccombano all’erosione, o alla demolizione che seduce con il solito nuovo, il pittore li ha tratti in salvo sulla tavola, alla maniera degli antichi Maestri medievali.

Nulla è posticcio qui, nemmeno il supporto. L’orizzonte dell’origine riaffiora ferito e maestoso, capax di memoria, di vite viventi.

Soltanto a distanza, sciolti dalla loro funzione di sostegno, separazione e protezione, i muri possono farsi opera d’arte, e proprio allora “il mondo si fa mondo”, gettano luce su un mondo, il nostro, che non possiamo cogliere, comprendere e contemplare senza distanza, senza sospensione di ogni agire finalistico. Soltanto dopo avere tolto i propri calzari-attrezzo, spiega Martin Heidegger a proposito del celebre disegno delle scarpe di contadina di Van Gogh, la donna può accorgersi, incontrare e vedere a quale mondo appartiene, visibile ma invisto nella laboriosa quotidianità. Ѐ “[6]dallo scuro involto consumato delle scarpe che si protende la fatica dei ritmi di lavoro. Nella corposa ruvidità della calzatura, si rafferma la durezza dei passi tra i solchi, tesi e sempre uguali, del campo battuto da un vento tagliente. Sul cuoio restano la freschezza e l’umidità del terreno. (…) Nelle scarpe vibra il richiamo scabro della terra, il maturare silenzioso delle sue messi e il suo impenetrabile negarsi quando essa si mostra nell’incoltezza del campo invernale. In questo attrezzo, respirano l’apprensione, senza lamenti, per la sicurezza del pane, la gioia, senza parole, per lo stato di bisogno nuovamente superato”.

Così i Muri-opera, memoria cromatica e tattile, se pur lacerati dalla fatica del vivere con i suoi baluginii delicati di gioia e di speranza, operano. Estendono l’orizzonte che sentiamo protendersi anche alle nostre spalle, ci fanno sentire provenienti da un passato autentico, dotati di una storia, di un senso, di una direzione, di una ricchezza esperienziale non altrimenti disponibile, per cui avvertiamo un senso di riconoscenza, da benvoluti o da sopravvissuti, o meglio, da entrambe le posture che sanno convivere impuramente, umanamente in noi.

Cristina Muccioli

[1] Stipulata a Strasburgo dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell’Ambiente del Consiglio d’Europa il 19 luglio 2000.

[2] “paesaggio designa una determinata parte di territorio così come è percepita dalle popolazioni (…). Cap. 1 Lett. 1 art. a.

[3] Caspar David Friedrich, Der Wanderer über dem Nebelmeer, 1818

[4] Samuel Beckett, An die Nachgeboren, 1939

[5] Mark Rothko, the Seagram Murals, 1958

[6] Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, Marinotti Ed. 2009 pag.39