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Eugenio Riccomini: “Ghirigori in cielo, e strazio nell’anima.”

Dal catalogo della mostra alla
Rocca Sforzesca di Dozza Imolese (2007).

 

Avevo davanti questi suoi quadri, a me ignoti, fatti di smalti, di materiale acrilico; a me ignoti, visto che m’interesso, e talvolta perfino scrivo, quasi solo di vicende da lungo tempo passate, e di artisti che non ci sono più, se non nelle sale dei musei, e sugli altari delle chiese. Guardavo, rimuginando quel po’ che conosco dell’arte a me contemporanea, o di poco precedente; già timoroso di dover poi scrivere di cose a me così scarsamente familiari, inconsuete. E intanto discorrevo con Beneventi, che mi squadernava davanti qualche sua tela, senza commento. E m’accorgevo che, chissà perché, il dialogo scivolava sempre più spesso su faccende di natura, diciamo così, politica: sulle disuguaglianze fra gli esseri umani, sulle prepotenze, sulle umiliazioni, sul reiterarsi quotidiano e quasi inosservato dei massacri su questo nostro bellissimo granello di polvere che da millenni e millenni mulina nell’universo. Sì; ma che c’entrava, tutto quel discorrere, pacato, quasi rassegnato e senza alcuna ambizione di far teoria; che c’entrava con la pittura? E, nella fattispecie, con quei dipinti che mi stavano sotto gli occhi? Avvertivo, però, che quel suo aggirarsi con la mente sulla sorte dei nostri simili aveva certo a che fare col suo dipingere; che ne era, per così dire, il motore che lo sospinge. Perché, a prima vista, i suoi sono quadri che mostrano perfino ovvie parentele formali con cose ormai entrate nella storia della pittura moderna: ricopre, ad esempio, le sue stesure cromatiche di guizzi sgocciolanti, un po’ come fa Pollock col suo dripping; ma quello sgocciolare è in realtà sottratto al caso: Beneventi, infatti, compie ampi gesti e percorsi filamentosi, che richiamano le tracce delle orbite degli astri: e allora rievoca segni analoghi già visti nei dipinti di certi pittori attivi soprattutto a Milano nei primi anni del dopoguerra, che si definivano spazialisti, e di cui era leader Fontana, seguito da Crippa, Dova, Peverelli ed altri ancora, che portavano nei loro quadri perfino la luminescenza delle insegne al neon, che a quei tempi iniziavano a mutare il volto notturno della città.E ancora si vedono altre allusioni allo spazio: perché Beneventi campisce il fondo delle sue opere, assai spesso, con una stesura d’un blu profondo, quasi nero;

che di certo allude alla volta celeste nella notte, però solcata e percorsa, appunto, dal fulmineo guizzare d’un asteroide, o magari dalla scia luminescente d’uno di quei proiettili a razzo che usa l’artiglieria moderna, e che abbiamo visto in versione verdastra e tremolante, ma non per questo meno terribile, nei resoconti televisivi delle nostre guerre recenti. E in alcuni di quei dipinti si scorge, infatti, sotto il cielo solcato da quelle sinistre tracce, il giacere d’una metropoli, con le sue case illuminate, i suoi rettifili, e il pullulare invisibile ma presente dell’umanità. L’americano Pollock, gli spazialisti milanesi, quindi; e talora il segno violento di Soutine, pittore che Beneventi ama non poco. Nulla, o quasi nulla, della quiete dolce dei colli del Frignano, ove s’ostina a vivere, perché tanto il mondo intero gli arriva sott’occhio anche in quell’arcadica tranquillità, ove si continua a fare pagnotte fragranti, come cent’anni fa. I colli un po’ ancora verdi, e già arrossati dall’autunno, compaiono almeno un paio di volte, a dire il vero. Ma niente Morandi, niente Bertocchi, niente Bertelli o sapore ottocentesco: anche qui il grembo della natura è ferito e solcato dalle solite rapide traiettorie, rosse, che avvampano, e rompono il silenzio dei declivi. Il fatto è che Beneventi si trova certo bene a casa sua, e gusta il pane di Pavullo; ma legge il giornale, guarda la tivù, discute con i suoi sodali. E si sente addosso, quindi, tutt’intero, il peso del mondo. Lo si vede benissimo in una serie di dipinti che hanno l’apparenza di quieti paesaggi marini, e che invece celano uno strazio cui nessuno, pare, vuole porre rimedio. Sono grandi carte applicate su tela, la cui campitura è divisa, come al solito si fa nelle marine, in senso orizzontale, più o meno all’altezza della sezione aurea. Blu fondo, oscuro, quasi nero nella striscia di mare; e sopra un cielo tra il blu e il verde cupo, anche mosso dallo sfilacciarsi delle nubi, nel vento. E tra le due zone oscure una linea, qua e là frammentata, che pare segnare il baluginìo della costa abitata, delle case: ch’è, insomma, l’orizzonte lontano e spesso non raggiunto d’una terra senza più freddo e morte incombente, quale appare alle migliaia di sventurati che dalle più remote e affamate lande del pianeta giungono sui nostri lidi; approdando, quando va bene, spaesati e tremebondi fra turisti, bagnanti, bagnini e barche da diporto bianche e azzurre; fra bambini paffuti che costruiscono castelli di sabbia. Ecco perché, quel giorno, si parlò meno di Pollock, di Crippa, e più di queste quotidiane sciagure. A dirla in breve, insomma, per un critico in toga d’accademia e che sappia il suo mestiere, Beneventi andrebbe subito collocato nel cassetto o nello scomparto degli artisti non figurativi, e magari di gesto. Ma direi anche che quello scomparto gli sta troppo stretto. Lo dimostrano queste visioni dei “migranti”, le cui figure non si vedono solo perché noi, in quei dipinti, vediamo ciò che vedono i loro occhi, ciò cui anelano i loro cuori straziati e stanchi. Beneventi si guarda sempre attorno; guarda, certo, i quadri dei pittori con cui sente affinità, e con cui perfino tende a gareggiare. Ma il suo interesse precipuo, da cui procede tutto il suo dipingere, è ciò che un tempo si chiamava, con una punta di alta retorica, la condizione umana. Quella fatta di violenza e di sofferenze, sì; ma anche quella che quotidianamente ci circonda, con cui conviviamo senza neppure che ci se ne accorga. Non compare nulla d’antico, nei suoi dipinti. Eppure, in alcuni dei più recenti, ed insoliti, egli fissa lo sguardo proprio attorno a sé: sugli intonaci corrosi, intaccati dalla pioggia e dal tempo, delle case contadine o dei borghi qui attorno, dei paesi e delle città in cui viviamo in quest’angolo di terra. Sono evocazioni e rifacimenti di intonaci antichi, grezzi, fatti da chissà quante generazioni di muratori e d’imbianchini (che, da noi, nei nostri dialetti si sono sempre chiamati pittori). La stesura a grumi, ruvida pare, in riproduzione, quella d’un dipinto informale; fuori tempo, ormai. Ma i muri delle nostre case povere e contadine sono proprio così. Recano in sé la traccia evidente del lavoro, della fatica, e perfino della voglia di velare, con un alito di colore e di qualche sorta di bellezza, una muratura priva di nobiltà, di squadrata simmetria o geometria; sono cose, queste, antiche e moderne al tempo stesso; e anzi senza tempo. Sono cose fatte dalla mano dell’uomo, in pace, per durare; e per questo Beneventi le guarda sorridendo, infine.